Cercando il senso nel provare a coniare le due facce della medaglia formata dai termini “architettura condotta” ho incontrato la trascrizione della memoria di un figlio che prova a descrivere la professione del padre scomparso.

Colpito dalla riflessione proverò in futuro a riflettere meglio su queste incontrate parole, immaginando magari cosa manca ad un architetto per svolgere una  necessaria “…assistenza continua (diurna e notturna) di una comunità”.

Quando il medico era “condotto”

«Arte più misera, arte più rotta / Non c’è del medico che va in condotta»… Questo distico relativo alla sua professione, mio padre lo ripeteva spesso nei più pesanti momenti del lavoro: forse non ne conosceva neppure il nome dell’autore, ma aveva la consapevolezza e la continua conferma del suo contenuto. Morì senza potere vedere crescere i propri figli, e fu pure additato “post mortem” a modello di una categoria professionale che stava anche lei per morire. Col suo lavoro mio padre non si arricchì, proprio come quel suo antico collega che fu il padre del Carducci, e proprio come quel dottor Leonzio Sartori, veneto di Schio, che aveva stimolato la vena poetica dell’amico Arnaldo Fusinato nel comporre quella famosa “ode” così ben rappresentativa della vita del medico condotto, di poco cambiata nel corso dei tempi fino a quando la benemerita categoria non fu soppressa d’ufficio.

Ma “condotto” dove e da chi era questo povero medico? Da un contratto di “condotta” (parola derivata dall’antico significato di “condurre” inteso come “stipendiare”) che lo impegnava all’assistenza continua (diurna e notturna) di una comunità e con due sole settimane all’anno di possibile (e neppure sicuro!) riposo, con l’obbligo però di trovarsi (e pagarsi) un sostituto adeguato.

Rideva bonario il Fusinato ricordando all’amico Sartori l’“epopea” della quotidianità della sua professione: «E senza tregua, senza respiro / Come la posta sei sempre in giro». Coglieva poi, pur se con faceta ironia, tutte le vicende della sua vita, quando, ricordandogli “la dolce antifona del sei pagato”, lo chiamavano nel cuor della notte per correre al capezzale di chi era ben più sano di lui. Senza poi dimenticare le rare occasioni di qualche visita a persona forestiera e “importante” che regolarmente gli sfumava poiché egli era ritenuto troppo modesto per potersi accostare a chi si emergeva dal volgo.

Infine, con altri versi che mai hanno perso di attualità, concludeva il poeta: «Se tu guarisci qualche ammalato / È Maria Vergine che l’ha salvato; / Ma per disgrazia s’egli ti muore / T’urlano dietro: Can d’un dottore!».

A conclusione del tutto restava, immancabile, il martellante distico autoconsolatorio: «Arte più misera, arte più rotta / Non c’è del medico che va in condotta».

Ma allora, oltre che a lavorare, come ha ben raccontato in una rima allegra il Fusinato, il medico condotto era anche “uno di famiglia”, capace di spendere sempre una parola buona di conforto e di bontà, molte volte più efficace di molti farmaci, coi bambini come coi vecchi, che a quei tempi ancora non si chiamavano “anziani”.

Come anche venivano chiamati “clienti” quelli che oggi più urbanamente si chiamano “pazienti”; certo è che il medico condotto era lui “paziente” coi “clienti”, mentre il medico-burocrate di oggi è invece proprio diventato “cliente” (nel senso latino di “tributario”, “dipendente”) dei suoi “pazienti”, dal momento che spesso obbedisce loro in servile ossequio… Tra le tante “riforme”, quella del linguaggio è di gran lunga la più bella… e la più ipocrita.

Tanti i compiti che svolgeva non contemplati dal contratto di “condotta”, ma egli non se ne ritraeva affatto; poiché nei paesi di campagna era, col parroco e il segretario comunale, tra le poche persone che avevano studiato, e non di rado gli toccava persino di correggere i compiti di latino di qualche ragazzo che era andato a visitare, lui che il latino l’aveva studiato sì, ma chissà quanti anni prima.

Come un parente faceva poi da padrino di qualche bambino che aveva fatto nascere e spesso era invitato come testimone di nozze, poiché, di tutti i conoscenti degli sposi, era la persona più di riguardo.

Aveva studiato per tanti anni e, per necessità di lavoro, possedeva un suo mezzo di trasporto (prima il calessino o la bicicletta, poi l’utilitaria), ma, anche se indossava dignitosamente giacca e cravatta, non era più ricco di quelli che curava nel fisico e nello spirito; e lo scarso stipendio che gli passava il Municipio non gli consentiva di vestire i propri figli meglio degli altri bambini; anzi essi, a mano a mano che crescevano, passavano i loro abiti ai fratellini più piccoli.

Le uniche entrate “extra” erano in natura: bottiglie di vino, qualche uovo, alcuni salamini, frutta e insalata. A volte, per Natale, un paio di capponi, addirittura consegnati vivi come quelli di Renzo, per i quali nella casa del dottore si creava poi il problema… dell’assassinio rituale.

Nel suo lavoro faceva l’internista, il dentista, l’ostetrico, e talora anche trovava il tempo di farsi divulgatore di scienza, come un tal dottore Domenico Marchetti che, nell’anno 1872, pubblicò in appendice al Giornale di Vicenza i suoi “Bozzetti d’igiene”, poi raccolti in volume.

Anche se i colleghi specialisti spesso lo guardavano con sufficienza dal lato del loro presunto sapere, il medico condotto sapeva quanto fosse importante la sua opera, in un certo senso paragonabile a quella del soldato di truppa, senza il quale le battaglie non si vincono.

E questi medici di campagna, modesti e solitari, aiutati da scarse attrezzature e pochi farmaci, ma sorretti da volontà, coraggio e simpatia della gente, vinsero veramente la loro lunga battaglia per la salute anche contro tanti pregiudizi popolari rimasti vivi fino a pochi decenni fa.

In terra di Spagna c’è un monumento, opera di un medico scultore, che presenta il vecchio medico condotto a cavallo che si ripara dal vento quasi nascondendoci il volto, ed è veramente questa una bella immagine allegorica della sua figura: i medici condotti erano veramente “umili eroi”, come li aveva chiamati, con un po’ di spirito deamicisiano, un giornalista degli inizi secolo, ma sempre pronti non solo a curare ma anche distribuire una buona parola, un sorriso e una caramella ai bambini.

Gli ultimi vent’anni hanno cancellato queste esperienze di tante generazioni con un colpo di spugna, in compenso abbiamo USL, SAUB, “guardie mediche notturne e festive”, “guardie turistiche”, “nuclei operativi” e tante analoghe amenità burocratico-sanitarie.

Ma sulla bocca di tanti odierni “operatori della salute” il sereno di quei vecchi medici non ha mai certamente brillato.>>

Omodei Zorini Gianvincenzo – (fonte: http://www.paginadelleidee.net/8_riflessioni/riflessioni4.htm)