dal latino: vita, da un arcaico vivita; parallelo al greco bios e al sanscrito givathas.
Si dice che la vita sia l’unica bolla di resistenza contro il caos, l’unico sistema capace di mantenere costante il livello di entropia al proprio interno.
È probabile che la parola nasca da un’astrazione di [vivus] vivo, una qualità di un corpo intuitiva, semplice, immediata. Una qualità che accomuna un’intera classe dell’essere, che abbraccia un ciclo armonico – dal vegetale all’animale al vegetale.
Ai sensi significa crescita, volontà di presenza, capacità di eternarsi nell’avvicendarsi delle generazioni; al pensiero riesce una forza inarrestabile che muta e mai non finisce, sempre arroccata sulla roccia, sul deserto ma non per questo meno verde, sempre sferzata da onde, da burrasche ma non per questo meno gioiosa.
Si dice che la vita finisca con la morte, ma la legge della vita e della morte è una sola, e lo stesso respiro che ci spalanca i bronchi in un vagito raccoglie l’ultimo sospiro che li abbandona – e questo, al di là di ogni dolore e di ogni felicità, resta il serafico, ineffabile mistero di quel tutto respirante che spesso scordiamo e a cui in ogni forma è dovuta meraviglia e rispetto, comprensione e comunione commossa – nel silenzio tenerissimo della gemma dischiusa e nel dolciastro della putrefazione o del fumo pesante delle pire.
dal latino: pro avanti jacere gettare. Ciò che viene gettato davanti.
Il progetto è l’anima della vita. E’ la concretizzazione di quell’esser-ci che è sempre proiettato avanti rispetto a sé. Il progetto è la cura che si ha di sé, delle altre persone, del proprio mondo. L’amore più reale. Non è solo un grosso foglio di carta sporcato con disegni squadrati, né una fantasticheria tagliata come un piano d’azione.
dal latino: cura derivato dalla radice ku-/kav- osservare. Da confrontare con il sanscrito kavi saggio.
La cura è responsabilità. La responsabilità che segue l’osservazione. Che sia una terapia medica, una preoccupazione, o un accudire il progetto di una vita altrui, la cura è responsabilità.
In effetti sembra che sia il lato attivo, il paradigma dell’amore stesso – di un amore non fatuo, non impalpabile, ma concreto. Un amore che come diceva Gaber diventa “materia, terra, cosa”.
dal latino: amare. Un’etimologia falsa ma estremamente poetica vuole che derivi dal latino a-mors, senza morte.
Parola arcinota, pronunciata tanto spesso come capita a poche. L’etimologia mette in luce l’archetipicità di questo sentimento: “amore” non deriva da altre, non è composta: la sua radice significa se stessa. Quasi non pare artificiale.
Altro paio di maniche è scegliere i sensi, i significati e il respiro che si vuole dare a questa parola – a questo sentimento. Naturalmente ha un’ottica soggettiva, e il tema sarebbe complicatissimo. Ma su una cosa si può concordare: tanto più ampio e consapevole e tanto più profondo e coltivato è il significato che le diamo, tanto è meglio per la nostra intera vita.
Prevért scriveva: “La vita è una ciliegia/ la morte il nòcciolo/ l’amore il ciliegio”.